Una ospitalità compromettente

Cari parrocchiani di S. Agostino e cari abitanti del nostro quartiere, vogliamo augurarvi di cuore un Buon Natale. E perché sia un Natale buono, crediamo sia bello sostare ancora con lo sguardo nel presepe. Il presepe è un grande esempio di ospitalità e di accoglienza. Il Figlio di Dio, l’onnipotente creatore dell’universo, Colui che è, che era e che viene, Colui che ha cambiato i connotati alla morte uscendo vittorioso dal sepolcro ha iniziato la sua esperienza in terra mostrandosi bisognoso di tutto, affidandosi all’ospitalità delle persone buone. Di Maria, che lo ha accolto nel suo cuore e poi nel suo grembo. Di Giuseppe, il quale ha lasciato che il Signore entrasse nella sua vita e si affidasse alle sue premure di padre. Ospite di quello sconosciuto e generoso proprietario della mangiatoia a Betlemme.

Come succede nelle nostre famiglie quando nasce un bimbo e diventa il centro dell’attenzione, possiamo dire che pure Gesù, deposto nella mangiatoia, è diventato il principe della casa. E Dio Padre ha fatto in modo che quella casa dov’era il suo Figlio, vero Dio e vero Uomo, diventasse ospitale per persone di condizioni diversissime. Il Signore in quella stalla ha accolto i pastori, persone semplicissime e dalla vita dura, appartenenti al popolo di Israele. E ha accolto i Magi, sapienti e ricchi, venuti dall’oriente ad adorare la Luce del mondo.

Che ci sentiamo pastori o magi, è chiaro che anche noi siamo invitati alla presenza del Signore. Non sentiamo le voci celesti degli angeli. Non vediamo la stella. Ma sentiamo risuonare la Parola che rivolge a noi un duplice invito. Ad ospitare il Signore. Ad essere ospiti del Signore.

È una ospitalità compromettente. Anzitutto per il Figlio di Dio, che si è veramente immerso nella nostra condizione umana. Che si è scomodato per farsi vicino, per farsi fratello. Che «pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini» (Fil 2,6-7). Che ha accettato il rischio di non essere accolto, come ci ricorda l’evangelista Giovanni nel prologo che ascoltiamo nel giorno di Natale: «Era nel mondo e il mondo è stato fatto per mezzo di lui; eppure il mondo non lo ha riconosciuto. Venne fra i suoi, e i suoi non lo hanno accolto» (Gv 1,10-11). Alla dolcezza del presepe e della sua luce si affianca la drammatica considerazione delle tenebre e delle incredibili situazioni nelle quali il Signore bussa alla porta, vuole farsi ospitare (cf. Ap 3,20), ma la porta rimane chiusa. Eppure lui non va via, perché è Dio, e non uomo (cf. Os 11,8-9): non si arrabbia, ma continua ad essere fedele alla sua compromissione con la nostra esistenza, stando vicino ad ogni uomo.

Certamente, poi, il presepe richiama una ospitalità compromettente anche per noi. Denuncia la nostra tiepidezza, la nostra superficialità, talvolta la nostra chiusura verso Dio e verso gli altri. È bello il Natale, ma è scomodo, perché quel bimbo (l’Onnipotente che ha assunto la condizione di servo) ci invita ad essere come lui. Non possiamo essere onnipotenti, ma servi sì. E se solo un pochino entriamo nella sua logica di servizio, ne comprendiamo l’enorme portata per la nostra felicità. Il Natale è scomodo perché ci fa fare i conti con i nostri egoismi, che cerchiamo magari di mascherare con un po’ di buonismo da feste di fine anno. Ma qui si tratta di compromettersi con radicalità nella comunione con Dio offerta in quel bambino, affrontando a viso aperto le nostre resistenza e lasciandoci aiutare (il Signore nasce per questo…) a rivoluzionare la nostra vita, per diventare, come Lui, capaci di amare veramente e di essere affamati di giustizia e di pace.

La posta in gioco è altissima, ed è significata dallo scambio di doni che tradizionalmente facciamo a Natale: si tratta nientemeno che della divinizzazione della nosta persona. Noi diamo al Signore la nostra umanità; lui, in uno scambio molto vantaggioso per noi, ci regala la sua divinità. Auguri!

don Michele e don Francesco