Secondo Cicerone era «la più bella e la più grande città greca»: arriviamo a Siracusa in un’oretta di viaggio lungo la scorrevole autostrada. La sveglia è stata un po’ prima: abbiamo prenotato la visita alla Neapolis per le 10.45 e arriviamo quasi puntuali. Percorriamo qua e là il parco archeologico, viaggiando con la la fantasia nella vita e nella storia di venticinque secoli fa, durante i quali i siracusani in questo luogo hanno lavorato, scavato, costruito, giocato, assistito a spettacoli, imprigionato i nemici. Impressionanti le cave di pietra calcarea (impariamo il loro nome: latomìe), con le pareti quasi damascate per il lavorio degli scalpelli. Sostiamo dentro all’Orecchio di Dionisio, incantati dal gioco di voci amplificati dalla sinuosa forma della cava. Tre donzelle francesi la riempiono delle note gregoriane di una preghiera alla Madonna.
Camminando nella calura tra gli aranci e ibischi arriviamo al teatro greco, e par di sentir le voci di Euripide e Omero. Attraversiamo l’ampia cavea, accarezzati finalmente da una brezza leggera.
Rimangono da visitare i pochi resti dell’anfiteatro romano, accanto all’enorme Ara di Ierone, ed è ora di fermarsi per un po’ di ristoro a pesche e mandorle.
La mappa ci dice che forse il luogo migliore per avvicinarci all’isola di Ortigia con le auto è il parcheggio Talete. In pochi minuti arriviamo nella parte più antica e bella di Siracusa: un dedalo di bianche e strette viuzze, adornate di file di piccoli terrazzi che fanno giocare la luce del sole cocente. Stretti tra la fame e la voglia di un tuffo nel verdissimo mare, ci sediamo nell’ombrosa distesa della Shicheria: pizze e pizzoli con litri di acqua fresca soddisfano la prima. Per il tuffo il cameriere simpaticone ci indica il Solarium. Prima del nostro incontro con Camillo, della San Vincenzo di Siracusa, lo raggiungiamo per sostare sul popolato e scomodo scoglio, sferzato dalle spumose onde. Qualcuno s’immerge nella bassa rada. Qualcuno rimane a giocare a carte.
Camillo ci attende puntuale e cordiale davanti alla chiesa di san Paolo, accanto all’antico tempio di Apollo. Ci accomodiamo in una sala bassa, scura e afosissima e ci mettiamo in ascolto. Impariamo qualche tratto di storia della Società San Vincenzo de’ Paoli, le esperienze di servizio che le Conferenze di Siracusa e della Sicilia cercano di vivere, spesso in collaborazione con altri protagonisti, affrontando tutti i tipi di povertà: carcerati, uomini separati e soli, senzatetto, immigrati. Torniamo a riflettere sull’impresa della carità in situazioni di forte degrado, dove le istituzioni, pur vedendo, non muovono un dito. Salta fuori anche un accenno alla devastante presenza della mafia. E salta fuori anche la problematica, tutta interna alla organizzazione ecclesiale, della malintesa sostituzione di molte Conferenze con le Caritas parrocchiali. Camillo non nasconde un certo disagio mentre racconta di gestioni molto clericalizzate delle parrocchie.
Mentre ci salutiamo, riceviamo in dono gustosissimi dolcetti di pasta di mandorle e preziose indicazioni per l’ultima passeggiata nel cuore di Ortigia. Il duomo è un capolavoro barocco che integra le precedenti aule e colonne di chiese e templi che da cinquecento anni prima della risurrezione sono stati luogo di preghiera e di culto. Mentre ci passiamo davanti, nella “più bella piazza siciliana” con il suo selciato bianco e liscio, esce la gioiosa compagnia che festeggia due sposi giovani e belli. Scendiamo alla curiosa Fonte Aretusa, acqua dolce che sgorga a pochissimi metri dal mare, in una pozza abitata da rigogliosi papiri. Anche il sole scende all’orizzonte e colora la nostra allegra passeggiata sul lungomare, accanto a contorti ed enormi alberi di ficus e sotto la teoria di edifici barocchi che si stagliano su in alto, sotto il cielo blu.
Riprese le auto, si torna a Catania, mentre il sole si nasconde dietro le brulle colline. La semplice cena di riso bollito con pomodorini e tonno è anche questa sera un bel momento per rileggere la giornata e per fissare qualche spunto per la nostra vita. Viene fuori la vita della nostra parrocchia, e dei suoi personaggi curiosi. Forse cresce il desiderio di conoscerli, e di costruire una rete di relazioni. Forse stiamo imparando che tutti possono fare qualcosa. E noi non siamo i migliori che, bontà nostra, ci dedichiamo al servizio: non abbiamo nulla che non abbiamo ricevuto.















