L’anima mia è turbata…

Commento al Vangelo del 21 marzo 2021.

Anche in questa Quinta domenica della Quaresima siamo in compagnia del caro evangelista Giovanni (12, 20-33). Incuriositi su Gesù chiediamo anche noi di conoscerlo meglio, come fecero quei greci che, a Gerusalemme durante la festa, chiesero ai discepoli di «vedere Gesù». Giovanni l’ha visto, l’ha udito, l’ha toccato (cf. 1Gv 1,1-3) e ce ne parla volentieri, ricordando come il Signore si è preparato alla Pasqua. Sapeva che la sua crocifissione («quando sarò innalzato da terra…») era necessaria per una questione di «gloria». Sì, proprio una cosa assurda, ma è così: la gloria del Padre poteva essere vista dagli uomini, dal mondo, solo nella esperienza della croce, e poi della risurrezione. La gloria è l’amore, la vita, la potenza, la bellezza del Padre. Ed è la stessa gloria che il Padre ha condiviso integralmente con il Figlio. Vuoi «vedere» l’amore di Dio? Guarda il crocifisso. Vuoi vedere la forza dell’amore radicale? Guarda il tuo amico Gesù, che ha un amore così grande da dare la vita, proprio come fa il seme caduto per terra: se non muore rimane solo, se invece muore produce molto frutto.

Secondo noi, per quanto bello, l’amore non è proprio così illimitato. Noi amiamo di solito a certe condizioni, e non siamo così facilmente disponibili a dare la vita, ad essere semi che muoiono per portare frutto. Forse siamo capaci di morire per qualcuno cui vogliamo tantissimo bene (ad esempio i nostri figli, forse per i genitori o gli sposi)… ma ci ribelliamo alla prospettiva di dare la vita per gli sconosciuti o per i peccatori e i poco di buono.

Gesù invece, che ha in sé la gloria/amore di Dio, è pronto a dare la sua vita per tutti. È pronto concretamente a lasciarsi ammazzare pur di dimostrare questo amore glorioso, integrale, radicale, folle del Padre. Non è un mezzo amore, né un amore condizionato. È amore e basta!

Giovanni ci ricorda, poi, che per Gesù non è stata una passeggiata. Si ricorda che Gesù ha detto «Adesso l’anima mia è turbata». La prospettiva lacerante della morte ha toccato profondamente la sua umanità, e lo ha fatto partecipe della nostra paura (gli altri evangelisti ricordano questo passaggio nel dramma del Getsèmani). E questo ci fa bene: sapere che il Signore si è immerso veramente nella nostra umanità, sperimentando le nostre paure, le nostre angosce e le nostre tentazioni è importante. Importante perché così sappiamo di avere un Dio esperto della nostra umanità in tutto, ma soprattutto importante perché abbiamo un Dio amico che ci ha aperto la via della vittoria sulle tentazioni, le paure e le angosce: «Che cosa dirò? Padre, salvami da quest’ora? Ma proprio per questo sono giunto a quest’ora! Padre, glorifica il tuo nome».

È dura, è durissima per Gesù, come per noi, stare nella sofferenza. Ma l’unica via per venirne fuori è continuare a starci dentro amando, aggrappandosi alla certezza dell’amore del Padre, che è più forte di tutto, più forte anche della morte.

L’autore della lettera agli Ebrei (che ascoltiamo nella seconda lettura di oggi: 5,7-9) ha meditato molto quello che è successo nell’animo di Gesù in quei momenti, e ha capito che quel grido del Signore non è un grido disperato, ma l’inizio della nostra salvezza, è il grido del Dio vicino ai suoi figli e desideroso di farli partecipi della sua vita/gloria definitiva. Impariamo a memoria: «Cristo, nei giorni della sua vita terrena, offrì preghiere e suppliche, con forti grida e lacrime, a Dio che poteva salvarlo da morte e, per il suo pieno abbandono a lui, venne esaudito. Pur essendo Figlio, imparò l’obbedienza da ciò che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono».