15 dicembre: Anniversario della Parrocchia

Celebriamo quest’anno il 46° anniversario della vita della parrocchia e il 16° della dedicazione della chiesa parrocchiale. Lo facciamo con gratitudine al Signore che ci ha coinvolti nell’annuncio del Vangelo per tutti questi anni!
Per prepararci alla celebrazione, possiamo rivedere il video della Messa nella quale il vescovo Paolo Rabitti ha celebrato la Dedicazione della chiesa a S. Agostino.
Ogni giorno poi, riportiamo su questa pagina la testimonianza dei preti che nei primi decenni hanno accompagnato come pastori questa comunità parrocchiale. Sono pezzi tratti da una pubblicazione del 2004, in occasione della Dedicazione della chiesa.

Consulta qui l’elenco dei preti che hanno prestato servizio a S. Agostino

5. Don Silvano Bedin

A MEZZO SERVIZIO

L’estate del 1976, Don Ivano, professore in quinta ginnasio di italiano, storia e geografia, ci invitò a partecipare al campo scuola a Lagrimone con i suoi giovani di S. Agostino. Fu la prima esperienza con la gente di “Krasnodar”. Un’esperienza che ricordo con tanta gioia e tanta serenità. 

Ci legammo talmente a quella parrocchia che poi, nei momenti liberi del seminario, si coglieva sempre l’occasione per tornarci e cercare di rivedere le persone con cui avevi compiuto un cammino. 

Forse ripensandoci era più la voglia di vedere le ragazze che, all’età di 16 anni, ti erano talmente rimaste nella mente e nel cuore che non vedevi l’ora di incontrare. 

La cosa che mi stupiva era la grande accoglienza che trovavi anche da parte di chi non conosceva. 

Già allora mi sono rimasti impressi alcuni personaggi tipici: Rosy con la sua lambretta che non si accendeva mai; un’altro ragazzo, di cui mi sfugge il nome, che con la sua “stazza” richiamava i ragazzi a non bestemmiare e non si accorgeva che concludeva il suo richiamo con un bestemmione tonante…

Beh! Se questi sono solo alcuni ricordi di quasi trent’anni fa, vi potete immaginare cosa mi è rimasto nella mente dell’esperienza fatta in più di tre anni, dal marzo ’94 al settembre ‘97.

Il mio impegno era a mezzo servizio, nel senso che ero cappellano a tempo pieno alla Sacra Famiglia e dovevo aiutare i gruppi giovani di S. Agostino. 

Quando Mons. Maverna mi diede questo incarico ebbi un momento di grande sconforto, perché dopo quasi sette anni di servizio a Pontelagoscuro pensavo di aver quasi esaurito il mio servizio da cappellano, e anche se la lusinga del vescovo era motivata da molte lodi sulla mia capacità di relazionare con i giovani, ammetto che, fu un boccone molta amaro da digerire. 

Ma senza farlo vedere a nessuno mi buttai nella mischia in questa nuova avventura.

Arrivato a febbraio, alla “Sacra”, ebbi il tempo solo di conoscere i ragazzi e riuscii a organizzare per l’estate un campo a Falcade con i ragazzini dell’ACR. 

Mi ricordo che erano tutti di ”buona famiglia e a modo” e con un solo educatore e una mamma riuscimmo a gestire trenta ragazzini nella maniera più bella possibile, basta dire che alla sera già alle 23,00 dormivano e l’ultima sera a mezzanotte russavano! 

Finito il campo e salutati i ragazzi sul pullman, da Falcade passai direttamente a S. Antonio di Mavignola, dove mi attendevano i campi con S. Agostino. 

Appena arrivato scesi dall’auto e, due ragazzini, che non conoscevo, giocavano a ping pong. 

Invece del tocco della pallina risuonavano le parolacce e alcune bestemmie. Lì, sulle panchine, alcuni educatori parlavano tranquillamente senza dar peso a tutto ciò. Dentro di me pensai: “Ma dove sono finito”! 

Poi Suor Carmen mi spiegò che erano i ragazzi dell’Arcobaleno e che bisognava aver pazienza. Pazienza che doveva continuare poi alla notte quando dovevi combattere con i ragazzi per farli dormire. Trovare e inventare metodi di repressione per farli almeno riposare qualche ora per notte, non fu facile. Così scoraggiare la loro baldoria diventava appassionante. Anche se a queste cose ero già abituato nei campi di Ponte.

Iniziò così il mio rapporto con i ragazzi del Krasnodar, un rapporto che, superate le prime difficoltà di ambientamento, divenne talmente forte che ancor oggi ci lega. 

E quanti ricordi per le esperienze fatte nei campi a Vigo, ad Amelia, a Fongare di Recoaro…

Quanta passione ed entusiasmo nel trovare, cercare, programmare anche con mezzi ridottissimi. 

La forza era il gruppo, così unito che non faceva temere nemmeno la mancanza di quelle cose che sembrano indispensabili. 

Bastava stare insieme, discutere, giocare, pregare… si creava sempre un calore che scioglieva anche la durezza di chi ritrovava lì anche per caso. 

Ogni campo meriterebbe un racconto dettagliato per tutte le vicende vissute nella loro unicità e irripetibilità. 

Come meriterebbero pagine e pagine la descrizione dei singoli ragazzi, ognuno con il suo bagaglio personale e la sua esperienza di vita, per non parlare poi degli EDUCATORI, diversissimi fra loro ma ugualmente nell’insieme “completi”. 

Quanta fantasia e quanta passione in tutte le cose che si facevano. 

Quello che mi sconvolse di più fu il “non avere orari”; l’incontro, la preghiera, la condivisione, il gioco… le nottate potevano durare ore e ore, ma non per la volontà degli educatori, ma proprio perché si entrava nel clima dello “star bene” che non ci faceva pensare ad altro. 

Capite che non si possono fare dei nomi in particolare, sono persone che conosciamo, molte di loro continuano il loro impegno in parrocchia e molte di loro sono impegnate socialmente.

Se questo è un brevissimo accenno ai ragazzi così detti “NORMALI” della parrocchia, quanto si potrebbe dire degli OSPITI. 

Quante persone, quanti drammi, quanta gioia, quanta varietà di bene e di male, quanta fatica nel farli lavorare, nell’organizzare la mensa per metterli a tavola e presentargli il “ciccio-pollo”, nel tentare di toglierli dai loro vizi… . 

E insieme a questi come non ricordare le bande di OBIETTORI. 

Giovani che hanno condiviso volontariamente o involontariamente tante vicende anche rischiose o addirittura tragi-comiche. 

Dalla loro permanenza molte volte è nato un rapporto così stretto con la parrocchia che hanno condiviso perfino gli “affetti”, altri hanno ricevuto forza di impegno per la loro vita futura, altri addirittura una scelta di vocazione sacerdotale.

Devo dire in conclusione che, è si il parroco che da l’impostazione della parrocchia, e non posso pensare che Don Domenico, mio fratello, non l’abbia data, ma mentre scrivo queste righe, penso che se un sacerdote non trovasse delle persone che lo sostengono, come potrebbe dare tale impostazione? 

E allora come non menzionare un fedele collaboratore tutto particolare: B……. accompagnato dall’inseparabile “Pippo”, capace di dare forza con la sua costanza e caparbietà a me e a tanti che insieme a me hanno condiviso quei momenti. 

Ringrazio allora tutte le persone che ho incontrato in questa comunità perché mi hanno dato la possibilità di incontrare il “GESÙ VIVO E PRESENTE” nella mia storia e spero questo sia e continui ad esserlo per molti. GRAZIE.

4. Don Leonardo Bacelle

FRAGOLE E BARBA LUNGA

Sono stato, ordinato sacerdote da Mons. Maverna il 19 giugno 1982 (a pochi giorni dalla vittoria mondiale in Spagna…) e destinato prima a cappellano festivo a Mesola e poi a cappellano residente presso la parrocchia di S. Maria Nuova e S. Biagio in Ferrara.

Voglio ricordare, nel tempo qui trascorso, anzitutto don Giancarlo e don Ivano dai quali ho imparato gran parte della disponibilità a farmi presente alle persone così come sono, senza preoccuparmi di perdere mai qualche cosa della mia identità, ma consapevole che anche l’ultimo che si presenta alla porta nel chiederti qualche cosa ha sempre tanto di cui devi arricchirti.

Ricordo con immenso piacere la Messa della Domenica con la viva partecipazione dei bambini piccoli con il loro gioco e frastuono – rendevano solenne la liturgia tale da fare di quella proprio “una messa cantata” e la lunga ed indeterminabile fila di ragazzini che si affollano al confessionale, quasi a trovare un diversivo alle omelie di raffinata teologia di don Ivano o a quelle più immediate e un poco balbettate di don Giancarlo: al sottoscritto- in quel tempo – era riconosciuto il pregio di iniziare la Messa magari in ritardo, ma di riuscire a terminarla senza prolissità (col tempo ho imparato a non dover eccedere per rispetto dalla sacra liturgia… e del buon senso verso Dio).

Non posso inoltre dimenticare – specie di don Giancarlo – sia i suoi scritti in occasione di momenti particolari, come lettere aperte indirizzate alla comunità e raccolti anche in un fascicoletto e i tempi della raccolta di elemosina per i poveri davanti alla vecchia sede Coop, con annessa alla recita del rosario: incontravi lì sia chi incoraggiava e si fermava a darti qualcosa sia chi guardava da lontano ma non poteva fare a meno di fare i conti con una coscienza a volte a fisarmonica, e sia chi biasimava che un prete fosse in quel momento a fare tali cose invece di … ma non sarebbe stato capace di comprendere che anche questo era un modo di servire nel proprio sacerdozio.

E di don Ivano, che nel frattempo era diventato anche responsabile della Voce, rammento specialmente i primi campi scuola a S. Antonio di Mavignola, nella casa dei Salesiani: era in grado di coinvolgere i partecipanti ad una adesione attiva, anche nei momenti che sembravano di stanca o interessati ad altro per mille motivi.

Magistrale inoltre è stata per me la presenza della Sara, la mamma di Don Ivano ma che di fatto trattava Giancarlo e il sottoscritto in egual modo e con la stessa premura.

Fu così che ricoperto dal troppo ben volermi.. la mia linea cominciò a prenderci gusto: una tazza di macedonia con la panna e il cioccolato fondente il primo giorno, fu galeotta; e via via più macedonia e dolci mangiavo e più la facevo felice Sara, contenta che un nuovo record era stato stracciato, e mentre lei si sentiva soddisfatta per la cura che impiegava anche nei più piccoli dettagli io la sbalordivo giorno per giorno, anche se costavo come un somaro a mentine.

E ricordo come ora, la prima volta che ritornai dal campo scuola con la barba lunga: non mi disse molto ma le fragole che ci preparava sempre con piacere per quel giorno erano improvvisamente finite.

Sara mi fu madre e maestra di vita: attenta e vigile al particolare di ogni situazione senza perdere di vista l’universale di quanto mi circondava, loquace con una parola contornata da momenti di ascolto e attento silenzio.

Ricordo inoltre la efficiente presenza delle suore Pastorelle con sr. Maria, sr. Giulia, sr. Elisa, sr. Michela: sono state, ognuna per i talenti ricevuti, segno vivo all’interno di una comunità che via via viveva il suo tempo della sua adolescenza…

E come non ricordare le varie aggregazioni dei laici: dai catechisti all’Azione Cattolica, dai gruppi di giovani e di giovanissimi alle signore che si ritrovano anche occasionalmente per il ricamo: e tra tutte mi permetto di far memoria della S. Vincenzo e delle persone che con carattere e volontà sempre vi operavano, specie nei confronti di quanti poi, a volte nemmeno sapevano riconoscere con un grazie una tale valida presenza.

Poi sul finire dell’estate 1988 l’arcivescovo mons. Maverna pensò bene di iniziare a trasferire sacerdoti dalla vecchia diocesi di Ferrara a quella di Comacchio e viceversa, poiché nel frattempo s’erano fuse insieme da un paio d’anni… 

E fu li che il Signore fece sì che ogni situazione avesse una evoluzione simile a quella di un adolescente che si crede già adulto, ma forse deve ancora un po’ di pazienza, e nel frattempo camminare in tempi e situazioni certo non create.

Oggi, a distanza di oltre 16 anni, comprendo che anche questo, è stato un tempo di grazia!

3. Don Giorgio Lazzarato

Uno scheletro di cappellano

Un lustro della mia vita da sacerdote trascorso nella “Parrocchia di Krasnodar”, S. Agostino, dal mese di luglio 1981 al mese di agosto 1986, con i Parroci don Giancarlo Pirini e don Ivano Casaroli. 

Ero allora un giovane prete alla sua quarta esperienza parrocchiale come vicario cooperatore “cappellano”.

Tutto in quel luogo stava prendendo forma, ma già si respirava aria di accoglienza e questo è il ricordo che sottende a tutti gli altri: anch’io sono stato accolto. 

Questo modo di accogliere così umano ed evangelico ha un po’ addolcito l’amarezza del forzato cambio, donandomi presto serenità e gioia, entrando nella vita e nella storia della giovane comunità parrocchiale.

Ero reduce – scheletrico e ancora convalescente – da un operazione, ma l’attenzione di donna Sara, mamma di don Ivano, in pochi mesi ha garantito il raggiungimento della normalità fisica ed umana. 

Tra noi era nata una quotidiana alleanza e giorno dopo giorno ero mandato in missione per assicurare “pienezza” alla dispensa e al frigorifero. 

Ed il tempo è passato tra campi scuola, gite in alta montagna, scuola di chitarra, recital con i giovani, partite di calcio, concerti e l’incontro ripetuto con la gente, gli ammalati, i catechisti, gli educatori nell’animazione della pastorale.

L’arrivo delle Suore Pastorelle, di poco successivo al mio, ha sviluppato altre possibilità nelle iniziative parrocchiali ed un segno di comunione più incisivo.

Sono stati anni caratterizzati dal preciso intendimento di creare una Parrocchia, una comunità umana e cristiana, cercando ogni occasione per fare incontrare le persone e facilitare l’accoglienza ed il rispetto reciproco.

L’aiuto agli indigenti locali, tra le attenzioni primarie di don Giancarlo, ha fatto nascere nuove sensibilità in tante persone nell’impegno volontario di tempo e di aiuto concreto.

Quello che ora si è sviluppato in tutto il territorio parrocchiale ed oltre, mi riempie di giustificata soddisfazione nel vedere continuità di operato e di risposta quotidiana ad un “segno dei tempi”.

Ringrazio per questa ricorrenza, occasione di festa, e rivolgo un saluto a tutta la popolazione nell’augurio di una più viva e generosa collaborazione, sul terreno sul quale nasce e cresce ogni opera buona.

2. Don Ivano Casaroli

Un giardino di fiori e frutti

Nella piccola misura della mia vita, 30 anni non sono tanti ma sono comunque un bel mucchietto da non riuscire a ripercorrerli tutti ad uno ad uno. Di questi trent’anni ho partecipato solo alla prima metà. 

Sono comunque ormai lontani e non ricordo tutto. 

Come tutti sanno, gli inizi di S. Agostino sono nati dal desiderio di alcuni preti di vivere la vita pastorale insieme. Prima della nascita della parrocchia c’è stato il tempo della riflessioni in comune, del confronto, della lettura. Allora sembrava che il desiderio-progetto appartenesse a tanti. E dopo la riflessione la ricerca di una reale parrocchia in cui operare e tra offerte, proposte e contro proposte è giunto il tempo della nascita, della destinazione cioè alla ancora inesistente parrocchia di S. Agostino. Così prima siamo nati noi dentro un progetto di vita pastorale, poi è nata la parrocchia. 

Due nascite e nel mio ricordo un anno fortunato. 

Fu una sorta di amore a prima vista: due cuori e senza una capanna. Poi la diocesi iniziò a tirar su la capanna – il ricordo grato va all’interessamento puntuale del vescovo mons. Mosconi, al lavoro di mons. Giuliani e all’affetto sapiente di mons. Zerbini allora vicario generale – affidando il compito all’impresa del sig. Battaglia. Ogni tanto si passava a vedere come cresceva la capanna. 

Un giorno dopo l’altro e una impazienza dopo l’altra arrivò il trasloco con l’arredamento della casa e la mia prima notte a S. Agostino. 

I muri della casa non avevano avuto il tempo di asciugarsi, il riscaldamento al massimo provocò l’uscita di tanta acqua dai muri e la mia prima notte a S. Agostino fu in compagnia dell’umidità ed ebbi in regalo una bella otite. 

Poi arrivarono don Giancarlo e mia mamma. E la domenica 15 arrivò anche l’arcivescovo Mosconi a celebrare la Messa di inizio dell’attività parrocchiale. Davanti a un gruppetto di persone (la curiosità pareggiava la devozione) il Vescovo celebrò la Messa e all’omelia, rivolgendosi a me e a don Giancarlo, ci disse che potevamo farcela anche noi perché nemmeno S. Agostino era nato santo. 

Così rassicurati iniziammo la nostra attività tra entusiasmi, scoraggiamenti, prime conoscenze.

La domenica successiva alla prima messa non si presentò nessuno. Non capitò solo la prima domenica. Decidemmo di fare il giro delle famiglie. 

Ricordo ancora l’impressione scoprendo che nella “Nave” c’erano tante famiglie quanto nella mia precedente parrocchia. Fu comunque il primo di una serie di tentativi (c’è per tutti anche un tempo dei propositi!) che non andarono però mai completamente in porto.

Ricordo tanto fango attorno a casa (e attorno agli altri palazzi), le amicizie che cominciavano a nascere, il catechismo in casa nostra e nei garages e in casa di qualcuno, i primi catechisti (compresi nel loro compito ed esigenti), l’entusiasmo che crescendo spingeva le persone a passare dall’osservazione al coinvolgimento. Un contagio crescente sparso a piene dagli adolescenti di allora. 

A loro andrebbe dedicato una giornata di festa!

Per me è stato sicuramente il periodo più pieno della mia allora giovane esperienza di sacerdote. Se però ci penso non saprei trovare un fatto specifico che rese la parrocchia di viale Krasnodar significativa; riesco solo a riassumerla in un atteggiamento e in un sentimento: l’amore per la Chiesa di Gesù, povera nelle strutture e nelle persone, ma con lo sforzo di farsi accogliente sempre. Un’avventura che non era tentata solo da alcuni ma da tutti. Ognuno con il proprio passo (molti criticando hanno evitato passi falsi o ci hanno resi più attenti a dove mettevamo i piedi) ma camminavamo tutti.

La grazia che il Signore ha fatto a tutti fu di accorgerci che dentro gli incontri, le iniziative spicciole, le messe nella piccola cappella, il mese di maggio (una sera durante la benedizione finale sentimmo la scossa del terremoto che devastò il Friuli) e tante chiacchierate, cresceva un forte amore per la comunità, la nostra, e la volevamo sempre più bella (almeno come le ragazzine a cui i ragazzi facevano il filo). 

Un amore che aveva bisogno di essere detto e di essere manifestato nei giorni, nelle opere e nei luoghi. E ci si provava. Così ogni anno era caratterizzato con uno slogan che prendeva la forma di un adesivo distribuito la notte di Natale e poi affisso un po’ ovunque: sulle auto, sul frigorifero in cucina, sul diario scolastico, sulle porte dei garages e sui pali dei lampioni. Non era la soluzione di tutto, ma aiutava. Anche il ricordare il cammino ha aiutato e invogliato altri a mettersi in gruppo. 

Molti mesi prima di natale si cominciava a pensare alla frase che riassumesse a colori il futuro impegno e si litigava talvolta con le parole e per le parole (in questa sorta di gara don Giancarlo ha quasi sempre vinto senza darlo da vedere!). Anche amando le parole si è amata la Parola di Gesù e viceversa! Amare insieme Dio e il prossimo è il segreto vissuto da Gesù e spesso è la gioia della comunità e del credente.

Non è stato tutto rose e fiori. 

Ma certo ci è stata donata la grazia di crescere insieme nella fede, nella speranza e nella carità. 

Insieme come comunità abbiamo imparato a parlare, a camminare, a litigare.

Insieme siamo diventati adolescenti e a volte abbiamo pensato di essere la vera comunità, ma siamo cresciuti ancora per vedere lo stesso sforzo che fanno altri in maniera diversa.

Ora la comunità di S. Agostino è una giovane sposa che non esita a mostrarsi bella per il suo sposo. 

Fra pochi giorni si consacra la chiesa. 

Nel giorno del suo compleanno la comunità di S. Agostino riceve in dono da Dio la “casa” che egli ha costruito per tutti, la Chiesa. 

E’ bello che lo spazio del visibile incontro (non unico ma certo speciale) tra Dio e il suo popolo sia segnato (consacrato) e che la memoria di questo fatto e di questo giorno aiuti tutti, anche le generazioni future. 

In questo giorno dico grazie al Signore per ciò che la sua misericordia ha compiuto in questi anni. 

Un grazie non generico ma poggiante su tanti volti e tanti nomi, alcuni già ci guardano dal cielo.

Volti di uomini e donne, adulti e anziani, ricchi e severi, poveri e furbi, giovani e bambini, credenti a volte incerti e non credenti a volte troppo sicuri, le suore mai amate abbastanza e troppo presto partite.

Tutti non solo hanno accolto la chiesa (sarebbe dire poco) ma a loro modo si sono resi protagonisti di questo cammino o indicandone la strada o ne percorrendone dei tratti in silenzio da soli.

Vorrei concludere con una immagine. 

La Chiesa è un giardino di fiori e frutti posto in mezzo al mondo. 

Un bel giardino; ma non è l’unico. 

Ogni giardino ha il suo stile tanto caratteristico da farsi riconoscere all’istante e a volte da farsi imitare. 

La comunità di S. Agostino ha il suo stile e con il tempo si è fatta conoscere e, più di quanto di pensi, oggi soprattutto è guardata, amata e talvolta… invidiata cioè imitata.

Grazie di tutto e buona festa.

  1. Don Giancarlo Pirini

Il pupazzo di neve

Dopo trent’anni dall’inizio e sedici dalla partenza, non si può dire altro che: “ mi ricordo…”. 

Mi ricordo che quel quindici dicembre era un giorno pieno zeppo di nebbia e la zona di viale Krasnodar non aveva nulla da invidiare ad una località sperduta: era là, ai confini, dopo le due ferrovie. 

Certamente non assomigliava all’isola dei famosi, non solo perché l’isola non c’era, ma unicamente fossi e cumuli di terra.

Ma poi, piano piano, tutto è rifiorito, ogni cosa ha preso anima e corpo.

Mi ricordo che, per molto tempo, molti scambiavano la parrocchia con il paese omonimo.

E una volta sul giornale apparve la pubblicità del meraviglioso presepio nella parrocchia di S.Agostino. 

Caso strano, alcuni curiosi vennero a vedere il nostro presepio fatto su un tavolino.

E, non azzardandosi a criticarlo, dicevano che era bello ma un po’ piccolo.

Mi ricordo ancora che andavamo davanti alla Coop, di sera, a chiedere l’elemosina.

E una sera d’inverno, con la neve che veniva, c’era anche la Nicoletta Minia, eravamo là seduti, ormai irriconoscibili. 

Un uomo si avvicina e chiede cosa stessimo facendo. Noi gli rispondiamo che chiediamo l’elemosina per la parrocchia, e lui: “dite ai preti che vadano loro a chiedere l’elemosina”.

La Nicoletta non riuscì a spiegargli che quel pupazzo di neve lì accanto era… un prete.

E poi mi ricordo che non siamo mai stati oggetto di furto, eccetto una volta. 

Una sera alcuni inesperti portarono via la macchina di don Ivano: era una Simca 1000 ed era talmente scassata che il giorno dopo, a spinta, la riportarono.

E ancora… e poi, ancora…

E mi ricordo quello che don Milani scriveva ad un suo amico prete: “Quando avrai perso la testa, come l’ho persa io, dietro poche decine di creature, troverai Dio come un premio”.

Trent’anni fa anch’io ho perso la testa; ora l’ho persa di nuovo.