Commento al Vangelo del 6 settembre 2020.
Tra i grandi e importanti discorsi di Gesù riportati da Matteo c’è quello alla Comunità cristiana: oggi ne ascoltiamo un pezzetto (Mt 18,15-20), che ci aiuta a tratteggiare alcuni aspetti del nostro stare insieme come cristiani.
Il Signore aveva iniziato a parlare prendendo un bambino e mettendolo in mezzo. Ecco il primo tratto della identità della nostra comunità: siamo un gruppo di bambini, di persone cioè che sanno di essere dei figli di Dio, e decidono (liberamente) di fidarsi del Papà. E lo fanno insieme.
Siamo bambini, figli dello stesso Padre. Perciò, ovviamente, siamo fratelli. Non è che dobbiamo considerarci fratelli per un sovrappiù di benevolenza tra di noi: è che lo siamo proprio! E questo è un bel problema, perché non siamo proprio abituati a considerare gli altri come fratelli, tranne i famigliari o gli amici stretti…
Gesù è semplice e chiaro: «Se il tuo fratello commetterà una colpa…». E, nel caso dei torti o dei dispiaceri, ci dà immediatamente il criterio per affrontarli: è una questione di sguardo. Chi mi ha fatto del male è un fratello da perdonare!
E qual è il fine del perdono? Nella comunità parrocchiale ci si perdona perché si vuole tornare a vivere da fratelli: «… avrai guadagnato il tuo fratello». A volte perdoniamo, sì, ma per andare ognuno per la sua strada, rimanendo estranei che non si danno fastidio, e ci trinceriamo dietro un cainesco «che cosa me ne frega di quello là?». È una piccineria… In una famiglia, di solito, si sta male da matti quando non ci si parla tra fratelli. E i genitori, lo sappiamo, ne soffrono tantissimo!
Guadagnare i fratelli con il perdono – Gesù lo sa bene – non è una cosa né facile, né immediata. Bisogna iniziare a parlarne, bisogna coinvolgere qualche amico, bisogna coinvolgere anche la comunità. E al limite bisogna avere la pazienza di guardare chi sbaglia come lo guarda Gesù, che guardava ai pubblicani e ai peccatori con una compassione infinita e con un enorme desiderio di conversione per loro. Così noi, discepoli suoi: non possiamo guardare nessuno, neanche il peccatore più incallito, neanche il politico più disonesto, neanche il finanziere più sfruttatore, neanche il vicino di casa più stronzo, neanche l’immigrato più casinista come uno che non ha speranza e che non trova spazio di preghiera di intercessione nel mio cuore.
La comunità degli amici del Signore, dei figli di Dio, è chiamata con forza ad una testimonianza profetica controcorrente. In questi tempi in cui si è carichi di paure, pronti a facili giudizi e alla condanna o al rifiuto senza appello di intere categorie di persone, i cristiani non possono fermarsi allo sguardo superficiale. Il nostro Signore vuole che andiamo in profondità e che siamo protagonisti di un cambiamento finanche della convivenza civile a partire proprio dalla considerazione della infinita dignità di ogni persona che abita questa città, che abita il territorio italiano, che abita l’intero globo.
Il fermento è proprio l’esperienza di rapporto all’interno della comunità. Se tra quelli riuniti nel nome di Gesù (fossero anche solo due o tre) ci si accorgesse e si vivesse davvero della sua presenza e della sua logica, allora accadrebbe davvero quello che Lui, il Padre, desidera per tutti: ci sarebbero tanti piccoli cantieri di fraternità e di giustizia, e il mondo sarebbe gioiosamente fermentato dalla buona notizia che la risurrezione del Figlio di Dio fa rinascere una umanità più bella.
Ci mettiamo d’accordo per chiederlo al Padre?