Commento al Vangelo del 10 novembre 2019.
Ormai Gesù è a Gerusalemme. È salito da Gerico, si è avvicinato alla città santa accolto solennemente dalla gente, ha pianto vedendo la città dal monte degli Ulivi, è poi entrato nel tempio e ha cacciato via i venditori… Gli ultimi giorni della sua vita prima della Pasqua li passa proprio nel tempio insegnando. Il clima s’è fatto pesante per lui: i capi del tempio e del popolo hanno già deciso di farlo fuori. Ma la gente pende dalle sue labbra per ascoltarlo (cf. il cap 19 di Luca).
Gesù non scappa, non si tira indietro davanti alle provocazioni e ai tentativi di coglierlo in fallo per consegnarlo all’autorità e al potere del governatore. Con forza e coraggio e pazienza continua la sua opera educativa. Annuncia e denuncia. Annuncia il Regno e denuncia chi sfrutta la gente dietro il paravento della parvenza religiosa. Con intelligenza e astuzia risponde sulla questione dell’autorità di Giovanni il Battista e sulla questione dei tributi da pagare all’imperatore romano…
È in questo contesto il brano di oggi (Lc 20,27-38). La questione è quella della risurrezione. Sono i sadducei a tirarla fuori. I sadducei erano un gruppo religioso-politico del giudaismo: gli adepti provenivano dai circoli della nobiltà di Gerusalemme e dalle famiglie sacerdotali. Religiosamente erano legati solo alla Legge antica, ai primi libri della Bibbia, e negavano l’importanza della rivelazione successiva. È per questo che non credevano nella risurrezione dei morti. E su questo interrogano Gesù, ponendo l’esempio di una donna che ha avuto più mariti: se c’è la risurrezione – dicono – non si capisce di chi sarà moglie nell’aldilà! Bisogna tener presente che la concezione del matrimonio era fortemente legata alla procreazione, perciò la domanda dei sadducei non riguarda tanto il rapporto sponsale, ma la questione dell’avere discendenti e la continuità della vita.
Gesù, come fa spesso, va più in profondità e ci dice cose importantissime sulla nostra identità di persone pensate per vivere nell’eternità, superando la soglia della morte. Prendere moglie e prendere marito solo per mettere al mondo dei figli non sarà più necessario nella vita futura, nella quale si manifesterà pienamente la nostra identità di figli di Dio, partecipi della sua immortalità. Solo chi è figlio di Dio può infatti sperimentare la continuità della propria vita personale. Sarà una esperienza di evidente superamento della condizione mortale. Nella concezione dei sadducei, una persona continuava a vivere nei figli e nei figli dei figli. Ma il dono della vita risorta assicura una continuità di vita meravigliosa.
Questa vita risorta è una vita in compagnia con Dio: è stare gioiosamente davanti a Dio, come gli angeli che vivono al suo cospetto, in una capacità di relazione d’amore piena, di cui il matrimonio in questa vita è una stupenda anticipazione, quando è vissuto in comunione con il Signore e in un cammino di crescita e di maturità personale nell’amore.
Che l’interesse di Gesù sia qui non di fare un discorso sul matrimonio, ma sulla risurrezione, è evidente nella conclusione di Gesù, che richiama proprio ciò che era caro ai sadducei: l’episodio (narrato in Esodo 3,6) in cui Dio si manifesta a Mosè nel roveto e si dichiara il Dio dei patriarchi Abramo, Isacco e Giacobbe, parlandone non come di gente morta, ma come gente vivente. La conclusione di Gesù è stupenda: «Dio non è dei morti, ma dei viventi; perché tutti vivono per lui». Siamo amici del Dio della vita, che dona vita a ciascuno di noi. Una vita indistruttibile che consiste nella relazione con lui. E a noi che sperimentiamo il muro della morte Dio vuole garantire che il suo amore/vita è più forte. Per questo ha mandato il Figlio a condividere la nostra esperienza mortale: per aprirci il varco che ci conduca, al di là del passaggio della morte, a godere dalla sua compagnia per sempre, nella gioia del rapporto con lui e tra di noi.