Commento al Vangelo del 25 novembre 2018.
Il nostro percorso annuale alla scuola della liturgia culmina nella celebrazione del nostro amato Signore Gesù come Re dell’Universo. La Parola continua a dirci che verrà sulle nubi del cielo e tutti lo vedranno (oggi in Ap 1,5-8, domenica scorsa in Mc 13,26 e domenica prossima in Lc 21,27). Una insistenza particolare, che ci invita di nuovo a riflettere sulla originale potenza e la gloria del nostro Re.
Tutti siamo in attesa. Tutti desideriamo vederlo definitivamente, e saziare i nostri occhi della sua bellezza. Viviamo sbilanciati verso la pienezza, verso il compimento. Il cristiano è sempre proteso in avanti. Vive di speranza. La virtù della speranza va capita bene. Non è come quando si dice: ‘speriamo…’ con un sospiro carico di incertezza e di dubbio. Nel linguaggio della fede la parola speranza è condita di sicurezza. Perché ci fidiamo della Parola e sappiamo che quell’evento futuro della manifestazione chiarissima del Signore come Re accadrà veramente, anche se non sappiamo il giorno e l’ora. Su cosa è fondata questa speranza? Non certo su una vaga promessa o su una teoria religiosa. È fondata su un’esperienza che ha reso per noi affidabile, cioè degno di meritare la nostra fiducia, quel Signore che abbiamo scelto come nostro Re: la sua risurrezione.
La pagina evangelica di oggi (Gv 18,33b-37) ci fa contemplare Gesù davanti al governatore romano Pilato. Nulla, agli occhi di Pilato, poteva convincerlo della regalità di Gesù. Il Signore stava lì con umiltà e mitezza, non mostrava segni di forza, non era difeso da nessun esercito. Pilato ascoltava curioso questo nazareno che gli era stato consegnato come un sobillatore e che ammetteva sì di essere re, ma di un regno dell’altro mondo; ammetteva sì di avere dei servitori, ma che non si preoccupavano di difenderlo da chi gli aveva messo le mani addosso. Gesù va diritto al cuore della questione della sua regalità quando dice: «Tu lo dici: io sono re. Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per dare testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce». Si propone paradossalmente come il Signore della verità, come colui che comunica cioè che è vero e chiede di essere seguito solo per questo, con fiducia piena. Il contenuto della verità che Gesù comunica è l’amore del Padre. Un amore infinito, che si dona senza riserve senza imporsi mai, senza violentare mai la coscienza di qualcuno. La verità del suo amore è tale che lo porta a consegnarsi radicalmente a coloro che ama, costi quel che costi.
La conferma della verità di questo amore è la risurrezione. Consegnandosi a Pilato per lasciarsi ammazzare, nella sicurezza della risurrezione, Gesù mostra nel modo più profondo il suo amore che è più forte del rifiuto, più forte della morte. Di un re così, che ti ama anche se lo tradisci e lo ammazzi, che non pretende, ma si mette radicalmente al servizio, ci si può fidare. Di uno (l’unico) che risorge dai morti e non sbatte in faccia la sua potenza, ma continua anche da risorto a mostrarsi con misericordia ai suoi amici, ci si può fidare. È l’esperienza della Pasqua che fonda la nostra speranza.
Noi ci fidiamo proprio di quei suoi amici che lo avevano tradito e abbandonato e il terzo giorno lo hanno incontrato, risorto. Ci fidiamo perché anche noi lo abbiamo incontrato e lo stiamo incontrando: quando ci parla e ci apriamo alla dolcezza della sua verità che risuona profondamente nel nostro cuore; quando ci ama attraverso le persone che nel suo nome si donano a noi; quando ci lasciamo rimettere in gioco dal suo perdono e nutrire del suo Pane.
Fondati su di Lui, pieni di speranza nella sua rivelazione definitiva, stiamo dentro al mondo come lievito. Lo lasciamo comandare (è il nostro re!) sulle nostre persone e vivendo con Lui e come Lui facciamo crescere il suo Regno che non è di questo mondo ma è dentro a questo mondo e lo trasforma, mano a mano che le nostre persone si trasformano e si mettono, con amore, a servizio come lui.
Regnare, per Gesù e quindi per noi, è servire.