Commento al Vangelo dell’ 8 ottobre 2017.
Sempre più nei guai, Gesù: nel tempio di Gerusalemme continua a presentarsi come il Figlio inviato dal Padre a raccogliere i frutti che devono venir fuori dalla collaborazione tra la cura del padrone della vigna e il lavoro costante dei contadini cui l’aveva affidata (Mt 21,33-43). L’idea iniziale viene fuori dal profeta Isaia (5,1-7): aveva inventato l’immagine della vigna che dà uva acerba invece che dolce per denunciare l’ingratitudine del popolo di Israele nei confronti di Dio. Gesù riprende quell’immagine e la sviluppa insistendo sulla fedeltà di Dio che non si stanca di inviare profeti per raccogliere i frutti, e arriva ad inviare il Figlio. Rischiando che quel Figlio venga ammazzato e ritrovandoselo effettivamente ammazzato da chi vuole mettere definitivamente le mani sull’eredità. Che deve fare quel padrone? Che deve fare il Dio? Sono proprio i destinatari della parabola che ne pronunciano la logica conclusione: quei contadini non possono continuare a vivere, mentre il dono della vigna rimane e dev’essere condiviso da qualcun altro.
Proprio sul portare frutto si sofferma l’attenzione del lettore di questa parabola, che segna, quanto alla storia della salvezza, il passaggio da Israele alla Chiesa: un nuovo popolo, fatto di israeliti e di persone di tutti i popoli che riconoscono in Gesù Cristo il fondamento, la roccia della loro vita e si sentono chiamati a portare frutto con serenità e laboriosità nella comunione con lui. In Gesù Cristo crocifisso e risorto, infatti, è rivelata la certezza che la benevolenza di Dio verso l’umanità, da lui creata e continuamente curata e nutrita, rimane stabile. Dio non tira indietro i suoi doni. Padre misericordioso, non esita a condividere i suoi beni, e desidera che i suoi figli entrino nella sua logica di comunione, di vita donata, di servizio generoso. Il problema che blocca tutto, che perverte la logica del padrone della vigna, è espresso nelle parole che i contadini dicono alla vista del figlio: se lo ammazziamo avremo noi l’eredità. Ecco il punto: la brama di possesso, la voglia di accaparrarsi l’eredità, la vigna e i suoi frutti. Non comprendendo che quell’eredità è comunque data, ed è fatta per portare frutti da condividere. In fondo, Gesù ridice la struttura del peccato che la Bibbia ha da sempre delineato (cf. Gen 3): sospettare che Dio sia geloso e taccagno e attaccarsi ai suoi doni escludendolo dalla loro gestione. Ma la logica del possesso è una logica di morte, esattamente contraria a quella del dono, che invece è profondamente corrispondente alla identità di Dio e del cuore di ogni uomo creato a sua immagine e somiglianza. La fine prospettata per i contadini della parabola non è una semplice punizione per una trasgressione: è segnale del fatto che chiudersi in sé e bloccare il circolo dell’amore e della giustizia di Dio significa per l’uomo staccarsi dalla fonte perenne della vita, rinnegare la propria identità, tradire se stesso, illudersi che il tralcio possa vivere lo stesso anche se è staccato dalla vite. Significa morire della ‘seconda morte’, che è, appunto, non amare più.
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