Commento al Vangelo dell’8 gennaio 2017. Il memoriale del Battesimo del Signore dà compimento al Tempo di Natale: lasciamo la contemplazione di Gesù bambino, e posiamo lo sguardo su di lui adulto, all’inizio della sua vita pubblica. Dopo circa trent’anni nella ferialità di Nazaret, il Signore lascia la Galilea. Ha sentito della iniziativa di Giovanni Battista, che chiamava la gente a confessare i propri peccati e a cambiare vita. Molti ci stavano e si mettevano in fila sulle rive del fiume Giordano, per essere battezzati da Giovanni: l’immersione nell’acqua era il segno della volontà di distaccarsi dal peccato. L’evangelista Matteo racconta questo fatto (3,13-17) sottolineando anzitutto un particolare importante: lo stupore di Giovanni nel vedersi davanti Gesù. Conoscendolo, anche noi avremmo forse detto: «Sono io che ho bisogno di essere battezzato da te, e tu vieni da me?». Gesù è il Figlio di Dio, senza peccato: che ci va a fare al Giordano? È il Signore che ci aiuta a capire: «Lascia fare per ora, perché conviene che adempiamo ogni giustizia». Torna una parola chiave: «giustizia». Indica da una parte la volontà di Dio che si manifesta nella storia della salvezza. Dall’altra l’adesione a questa volontà. Gesù ha chiarissimo il progetto del Padre, e non esita a darsi da fare per attuarlo, per noi e per la nostra salvezza. E sa che Giovanni è in questa lunghezza d’onda della giustizia di Dio, tutto disponibile ad obbedire al Dio che lo aveva chiamato sin dal seno materno.
Ma che cosa vuole, esattamente, Dio Padre? Che cosa ritiene giusto in questo momento? Vuole che il suo Figlio si faccia veramente vicino agli uomini, pur nella loro condizione di peccato. Gesù, che si mette in fila al Giordano, non disdegna di stare in mezzo ai suoi fratelli, non fa lo schizzinoso. Anche lui manifesta il desiderio di salvezza per tutto il popolo di suo Padre. Questo è ‘giusto’: che Dio si avvicini ai suoi figli!
Il punto principale della scena, tuttavia, è la rivelazione che accade quando Gesù «uscì dall’acqua». Con pochissime e sobrie parole, l’evangelista tratteggia una vera e propria ‘teofania’, un momento in cui le tre persone della Trinità si mostrano in modo sensibile. Mostrano qualcosa della loro identità e della relazione che c’è fra loro. Mostrano il loro sbilanciarsi, il loro fuoriuscire da sé per raggiungere noi. Infatti, «si aprirono per lui i cieli»: il mondo di Dio non è più inaccessibile. Dio stesso ha squarciato il tempo e lo spazio che ci dividevano da Lui. Solo Lui lo poteva fare: il mondo di Dio entra nella nostra storia ed è visibile dagli occhi di Gesù e dai nostri occhi assimilati ai suoi.
Gesù «vide lo Spirito di Dio discendere come una colomba e venire sopra di lui». Bellissima questa immagine della colomba, che torna al suo nido, che sta bene nel suo nido. Lo Spirito si posa su Gesù, perché Gesù è la sua dimora, come lo è il Padre. Lo Spirito, che è l’amore del Padre e del Figlio, fuoriesce dal Padre e riposa nel Figlio, che ne è il depositario e a sua volta il donatore. Si posa, in particolare, sulla umanità di Gesù, che è la nostra umanità da lui assunta per essere redenta. Lo Spirito, che ha reso possibile l’incarnazione del Figlio di Dio, tocca la sua umanità, per poter toccare la nostra: sentiremo dire da Giovanni Battista che Gesù è Colui che «battezza nello Spirito Santo» (Gv 1,34).
Tutto culmina in quel «ed ecco» pieno di stupore: annuncia la voce dal cielo, la voce di Dio, che parla di sé e parla di Gesù. Non si qualifica come l’onnipotente, come il creatore del mondo. Gli preme qualcos’altro: dire che quell’uomo uscito dall’acqua è il suo Figlio. E così gli preme farci sapere che lui è Padre! Padre innamorato perdutamente del Figlio. È – dice – il figlio «mio», ma non basta: ci tiene a precisare che è un figlio «amatissimo»! All’interno della Trinità esiste solo amore, solo compiacimento tra le persone divine, in una perfetta reciprocità. Il Padre che dice «in lui ho posto il mio compiacimento», dice la sua gioia, la sua contentezza di avere un figlio così, la sua approvazione di quel che il figlio fa o dice.
Pochissime parole. Densissime. Come un’icona. Non si può prescindere da esse, per tentare di dire qualcosa di Dio. E per toglierci dalla testa tutto quel che pensiamo di Dio e non c’entra con questo ritratto meraviglioso.