In missione per conto di Gesù

Commento al Vangelo del 18 giugno 2023.

Comincia il secondo discorso di Gesù riportato da Matteo, che suddivide il suo vangelo ritmandolo in cinque grandi raccolte di parole del Signore, alternate alla descrizione del suo operare tra la gente. Questo che ci sta di fronte è il capitolo delle istruzioni ai discepoli inviati come missionari. C’è, anzitutto, uno stretto legame tra la missione di Gesù e quella dei discepoli, specie dei “dodici” apostoli (= inviati). Essi partecipano, come Gesù e con Gesù, del movimento missionario che è stato ideato dal Padre, il quale è anche il padrone della messe cui affidarsi perché non manchino i mietitori (v.37). Di questo Padre Gesù coglie, condivide e manifesta il cuore. È un cuore compassionevole, capace di commuoversi, preoccupato per gli uomini. Degli uomini viene denuciato il disorientamento, l’incapacità di trovare riferimenti (il relativismo odierno non è una grande novità). Forse c’è anche un accenno amaro alla debolezza delle guide del popolo, gregge senza pastore (v. 36). L’immagine è biblica: nel libro dei Numeri (27,17) Mosè esprime il desiderio che, alla sua morte, il popolo “non sia come un gregge senza pastore”. Giosuè succede a Mosè. I discepoli continuano l’opera di Gesù. Condizione essenziale è quella di aderire, come Mosè e come Gesù, alla compassione di Dio: non esistono altre motivazioni autentiche. Ciò viene ripetuto in modo perentorio nel v. 8: l’esperienza del missionario è fondata sull’iniziativa di Dio che dona e si dona, che si fa vivo presso gli uomini in un modo oggettivo, senza riserve, senza condizioni, senza patteggiare il prezzo della salvezza, che comunque rimane quello della croce. Questo è lo stile che deve ispirare i missionari.

Uguali nell’intenzione, uguali nell’azione: Gesù dà ai dodici il suo stesso “potere”. Nel riassunto di 9,35, Matteo aveva appena raccontato come Gesù passava le sue giornate di missionario: camminava, insegnava, annunciava, guariva. Ora comanda ai suoi di scacciare demoni e di guarire (v. 1), di fare della strada e predicare (v. 7). È il metodo di Dio Padre: chiedere agli uomini di parlare di Lui, di operare per Lui. In Gesù, ci mostra che non vuole l’esclusiva, non dice “faccio io perché, voi siete buoni  a nulla”. Non trattiene gelosamente il suo potere: al contrario condivide, fa partecipare, chiede collaborazione. E leggendo i nomi dei dodici si rimane un po’ impressionati. Il progetto più grande e decisivo nella storia dell’umanità è affidato a dodici sconosciutissimi personaggi. È come sentire i nomi di gente qualsiasi del nostro paese, del nostro quartiere. È una squadra strana, in cui possono star dentro uomini diametralmente opposti: un ex pubblicano (esattore delle tasse da parte dei romani, quindi inviso al popolo) e un Cananeo, cioè uno zelota, un ex nazionalista (impegnato a combattere gli stranieri e i non-osservanti). Matteo si premura poi di precisare, con un tocco di solennità, che c’è un “primo” tra questi dodici (v. 2). Il nostro evangelista, d’altra parte, è l’unico che riporta il testo del primato di Pietro (cf. 16,16-19).

Come già per Gesù, i destinatari dell’annuncio e dell’opera missionaria sono le “pecore perdute della casa di Israele” (v. 6; si veda Mt 15,24), precisazione strana per noi che conosciamo l’universalità del comando del risorto (Mt 28,19), ma preziosa per farci notare il progetto progressivo della salvezza, che passa per le pieghe della storia, per i nomi di uomini e popoli che abitano questo mondo e in questo mondo si passano la parola del Dio che si commuove. È la risurrezione di Gesù il passaggio decisivo alla chiarezza che Dio stesso è presente a tutti e dappertutto, con la stessa concretezza con cui Gesù camminava, parlava e operava per le strade della Palestina. Ora, però, bisogna vedere il suo volto e sentire la sua voce negli uomini che si sono accorti che “il regno dei cieli è vicino”.