Commento al Vangelo del 27 settembre 2020.
Momenti difficili per Gesù, in accesa discussione con i capi dei sacerdoti del Tempio e con le autorità del popolo. Aveva appena chiuso loro la bocca a riguardo della autorità di Giovanni Battista, e ora con una parabola stringata e ficcante li stana nella loro ipocrisia e incapacità di cogliere l’appello alla conversione. Denuncia e chiamata a alla conversione stanno dunque dietro al racconto di quel padre che trova uno solo dei figli veramente disponibile ad andare a lavorare nella vigna di famiglia, anche se sulle prime, con sincerità, aveva detto che non ne aveva voglia. L’altro figlio, invece, pronto a parole, non ha mosso un dito per l’azienda del padre.
Gesù spiega in modo sferzante quel che succede ai suoi interlocutori: non si accorgono che ‘oggi’ arriva ai loro cuori una rinnovata chiamata a vivere per la giustizia, non provano rimorso per la loro risposta di facciata, rinchiusi come sono nell’aura della loro posizione socio-religiosa. Tutta facciata e niente sostanza, dice Gesù. Non si sono accorti che la gente si è convertita davvero andando dietro a Giovanni Battista, che chiamava con forza a cambiare vita, ad essere delle persone più giuste!
Altri invece, e proprio gli esattori e le prostitute, hanno capito. Parevano distanti dalla morale e dalla pratica religiosa, ma hanno spiazzato tutti cambiando vita. Gesù ne aveva alcuni attorno a sé: Matteo stesso, ad esempio, un esattore che aveva prontamente lasciato il banco delle imposte per seguire il Maestro.
L’ipocrisia da fastidio a tutti. Quando la vediamo negli altri ci fa rabbia. Sappiamo di solito riconoscerla abbastanza in fretta, negli altri… Facciamo più fatica a riconoscerla in noi stessi: siamo bravissimi a darci delle giustificazioni, ad arroccarci dietro le nostre sicurezze, magari faticosamente acquisite.
La chiamata di Dio alla conversione, poi, piace a tutti. Ma non tutti e non sempre riusciamo a riconoscerla come appello quotidiano a cambiare. È forte il rischio per i cristiani di sentirsi abbastanza a posto, di ritenere che tutto sommato sia sufficiente ‘andare a messa’ e dire le preghiere ogni tanto. È scomodo Dio che chiama. È scomodo cambiare anche le piccole cose della nostra persona. Andare a Messa e dire le preghiere potrebbe non avere nessunissima influenza nella vita. È chiaro invece che il Signore vuole farci ‘lavorare’ nella vigna, cioè nella Chiesa e nel mondo. C’è da pregare, sì, per lavorare meglio, affermando la via della giustizia, cioè facendo scelte secondo la saggezza di Dio, secondo quel che Lui ritiene giusto per la vita delle persone, delle famiglie, dei gruppi sociali, dei poveri, degli emarginati, per una adeguata condivisione delle risorse, per una custodia bella del dono del creato. Non ha molto senso preghiera che non sia un dialogo quotidiano (“vai oggi…”) con il buon Dio sulle scelte da fare ogni giorno. Non ha molto senso partecipare alla Messa domenicale se quell’ora passata in compagnia del Signore non porta con sé il lavoro, le gioie e le sofferenze della settimana appena vissuta e se non è laboratorio di una nuova settimana ancora più gioiosamente dedicata a far fruttare la vigna del Signore.
La preghiera, dunque ha da essere un dialogo vivace, che non si ferma alle formule imparate a memoria. In ascolto degli appelli quotidiani di Dio, e anche fatta dell’espressione delle nostre resistenze (Dio non si arrabbia se gli diciamo le nostre pigrizie, i nostri “non ho voglia”…). Tutto il nostro mondo emotivo ed affettivo può e deve riversarsi nel dialogo con il Padre e il Figlio e lo Spirito Santo, assieme alla nostra intelligenza che cerca di cogliere gli appelli della Parola.