Incontro con don Giorgio Jahola

Giovedì 15 gennaio 2016, alle 21 in oratorio, abbiamo incontrato don Giorgio Jahola, prete iracheno, di rito siro-cattolico, della diocesi di Mosul (città attualmente occupata dall’Isis). Un incontro non programmato: si doveva sfruttare l’occasione del passaggio di don Giorgio a Ferrara: tramite lui infatti la diocesi di Ferrara-Comacchio tiene i contatti con i fratelli  cristiani perseguitati dell’Iraq. I cristiani di Mosul vivono ora a Erbil, nel Kurdistan iracheno, come rifugiati o sono emigrati per lo più in Europa. Don Giorgio ha terminato da poco gli studi di teologia alla Pontificia Università Lateranense e sta per rientrare in Iraq. Si può trovare qui una sua recentissima intervista.
“Chiesa in uscita”! Con questa espressione papa Francesco sta spingendo e invitando ogni realtà della sua chiesa, sia essa piccola o grande, ad “uscire” non solo da un luogo fisico specifico, ma anche da una condizione mentale, da un “si è sempre fatto così” tanto di moda tra i nostalgici cattolici. Così alcune sere fa, sebbene chiusi nel salone della parrocchia di S. Agostino, siamo “usciti”  per andare verso oriente. In questo andare ci ha condotti don Giorgio Jahola, sacerdote di rito siro-cattolico della diocesi di Mosul. Alcuni giovani e adulti ascoltavano rapiti e commossi le parole di questo prete che non ha più parrocchia, chiesa e popolo, a causa del fondamentalismo islamico che sta cacciando i cristiani da quella terra che da sempre hanno abitato. Stiamo parlando dell’Iraq e del disastro umanitario che da due decenni le politiche internazionali, soprattutto lo strapotere americano, hanno causato. Chi ci va di mezzo sono sempre i piccoli, quelli che non contano, così migliaia di persone, famiglie cristiane han dovuto spostarsi per sopravvivere. Tanti però hanno perso la vita. Sono i martiri moderni, sono quegli uomini e donne che non hanno rinunciato alla loro identità, alla loro fede, alla loro appartenenza alla Chiesa, e han trovato la morte.
Don Giorgio fa scorrere le immagini dei campi profughi a nord dell’Iraq, nella città di Erbil, capitale del Kurdistan iracheno. Il nome di questa cittadina l’abbiamo già sentito al telegiornale, ma forse non ci abbiamo badato più di tanto. In questi campi, che sono di accoglienza, vivono stipati in container numerosissimi bambini, adulti ed anche anziani. Vivono in spazi angusti, che si ghiacciano d’inverno e si arroventano d’estate, viste le alte temperature fino a 45 gradi. Sono campi che raccolgono famiglie che non hanno nulla, perché il loro poco è rimasto nella vecchia casa abbandonata in una notte, nell’estate del 2014, e poi depredata da quelli dell’Isis. In comune poi hanno la cucina, i servizi igienici, un po’ come quando si va in campeggio. Però loro non sono in vacanza. In alcuni campi vi sono pure delle stanze adibite ad asilo, perché i bambini sono tanti e li abbiamo visti con il sorriso sulle labbra. Anche gli occhi di don Giorgio sorridono mentre la voce ogni tanto si incrina raccontando della sua gente. Lo vediamo, in un filmato, battezzare un bimbo. Ci racconta che la fede del suo popolo è autentica, che nonostante l’Isis abbia fatto tanto male, loro continuano a sperare, a pregare, a leggere la bibbia, a fare figli e a battezzarli, per non perdere l’identità di popolo di Dio. Anche le vocazioni religiose e sacerdotali sono numerose, pur in questa situazione difficile e dal futuro molto incerto. Trent’anni anni fa i cristiani erano un milione e mezzo, oggi si parla di poco più di 350 mila.
Si raccolgono sotto un tendone enorme, tutti insieme, e con il sacerdote che vive con loro, celebrano la messa. Si preparano alla prima comunione, scorrendo le immagini contiamo oltre un centinaio di bambini. Loro non hanno più chiese, ma tanti fedeli. Noi abbiamo tante chiese e pochi frequentanti. Eppure siamo un’unica Chiesa! Ed è proprio questo che don Giorgio ci viene a raccontare. Non ci chiede soldi mentre se ne va, ma solo di pregare per il suo popolo e tenere desta l’attenzione, perché non capiti che, nella terra dove è nata la fede nell’unico Dio, scompaiano i primi credenti.
Ed è proprio la preghiera del padre nostro che conclude l’incontro. La sentiamo recitare in aramaico, è il dialetto che anche Gesù ha usato, riconosciamo solo la prima parola: Abun, Papà.
Patrizia Trombetta
Don Giorgio ci ha mostrato alcune immagini, qui riportate: i grafici degli effetti della persecuzione (si verso la sparizione dei cristiani in Iraq), le foto della vivace esperienza di chiesa prima dell’estate 2014 messe a fianco a quelle della situazione attuale di vita sotto le tende…

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