Commento al Vangelo del 19 novembre 2017.
La parabola dei talenti (Mt 25,14-30), assieme a quella delle vergini sagge e stolte e a quella del giudizio universale (contenute in Mt 25), ci aiuta a considerare con concretezza come la vita attuale sia decisiva per il la nostra vita eterna. Effettivamente, noi siamo come quei servi che hanno ricevuto un gruzzoletto dal loro padrone, ciascuno secondo le proprie capacità, per far fruttare quei soldi (i talenti). Un primo spunto è la considerazione della (variegata) ricchezza delle nostre persone, create con la dignità di figli e con un sacco facoltà buone. Abbiamo la stima e la fiducia di Dio: ci ha fatto Lui! I talenti, più che alle capacità, alludono all’amore (come l’olio nella parabola delle vergini): Dio Padre dà a ciascuno il suo amore, che possiamo ‘trafficare’ con le nostre risorse di intelligenza, di volontà, di fantasia, di creatività, di affetto. Alludono forse anche alle mille e mille occasioni di amore che si presentano nella nostra vita, incontrando gli altri, più o meno prossimi a noi. Quante possibilità di servizio, di generosità, di perdono, di aiuto agli altri! Siamo fatti per amare. I primi due servi della parabola hanno capito e hanno trafficato. Sono stati simili al loro padrone, che non ha tenuto per sé i talenti, ma li ha affidati e condivisi con fiducia. Questo stile ha l’esito della moltiplicazione: vivendo nell’amore, si moltiplica a dismisura il bene, e la vita nostra e delle persone che ci sono accanto diventa più bella, più forte.
Ma questa condivisione nell’amore stenta a decollare, perché noi siamo anche come il terzo servo, che riceve un talento e lo mette sottoterra: siamo raggiunti dall’amore di Dio (creati, battezzati, dimore dello Spirito, ascoltatori della Parola…), ma questo amore non fa girare bene le capacità della nostra persona. Perché? Forse perché, come quel servo, siamo ‘cattivi e paurosi’. Paurosi e quindi cattivi: «per paura mi allontanai». Questo è il nostro problema: abbiamo paura di non essere amati! Non abbiamo capito Dio! Non abbiamo capito che Dio Padre ci dona radicalmente e fedelmente il suo amore. Pensiamo in fondo che lui sia ingiusto, che pretenda troppo, dando troppo poco («mieti dove non hai seminato»). Non ci accorgiamo del suo amore forte e delicato, non lo riconosciamo nella nostra quotidianità. E conseguentemente ingessiamo la sua forza d’amore, la sotterriamo con le nostre paure (di fallire, di essere ridicolizzati…) e con i nostri egoismi, che naturalmente vengono fuori alla grande. In pratica sotterriamo noi stessi, distruggiamo noi stessi. L’esito molto duro della parabola («toglietegli il talento e gettate il servo inutile nella tenebra esteriore; là sarà pianto e stridore di denti») dice una grande verità: se non viviamo intrecciando rapporti di amore con Dio e con gli altri, andiamo incontro alla distruzione della nostra persona, fatta per amare. E quel che ci è dato gratuitamente da Dio non serve a nulla. Potremmo illuderci anche per anni di esser contenti lo stesso, ma prima o poi viene il giorno in cui ci accorgiamo di essere soli e cattivi, perché impauriti.