Commento al Vangelo del 16 ottobre 2016.
I personaggi della parabola di Luca 18,1-8 sono velocemente caratterizzati: un giudice senza fede né legge, una povera vedova che non ha altri mezzi per ottenere giustizia se non la sua insistenza. Per un tempo indefinito il giudice non la degna di attenzione. La svolta avviene in un dialogo interiore, durante il quale decide, in modo del tutto egoistico, di levarsi di torno quella vedova. Qui si interrompe il racconto, e il Signore mette in luce il contrasto tra quel giudice disonesto e il Dio fedele che non abbandona i suoi.
Questa parabola è posta da Luca alla fine della cosiddetta “piccola apocalisse”, un brano in cui si parla della venuta improvvisa e decisiva della fine del mondo (Lc 17,20-37). Da questo contesto ‘escatologico’ cogliamo più profondamente l’insegnamento della parabola sulla preghiera. L’obiettivo dichiarato è di farci comprendere la “necessità di pregare sempre, senza stancarsi”. Ciò è possibile se si pensa la preghiera non semplicemente come devozione o attività, ma come espressione di un atteggiamento di fondo. La vita del cristiano ha una direzione, un orientamento: è la venuta del Figlio dell’uomo (v. 8). È una vita tutta rivolta lì. La fede del cristiano consiste nell’interpretare tutta la vita alla luce del Figlio dell’uomo, del Signore risorto, che tornerà alla fine dei tempi.
La situazione richiamata dalla parabola è sempre di attualità: anche ai nostri tempi la giustizia e la verità non sono molto rispettate. Viviamo problemi di ingiustizia, di sofferenza, di persecuzione. E continuiamo a dover riflettere sul dramma del ritardo della giustizia di Dio, sull’assenza di Dio, pur invocato, pur pregato, giorno e notte. Sulle vedove, ma anche sui bambini e tutti gli altri, cristiani e non, ingiustamente emarginati, perseguitati, gettati a mare, massacrati. Sui giudici inerti, incapaci, arroccati sui loro interessi. Gesù ci suggerisce di collocare queste riflessioni nell’ambito della fede. Precisamente nella fede come adesione a un Dio interessato all’uomo: non come il giudice menefreghista. Se questi arriva a far giustizia per comodo personale, non così Dio, che fa giustizia perché è premuroso verso i suoi “eletti”, cioè i credenti. Gesù non dà risposta all’interrogativo sull’origine della ingiustizia. Dà l’indicazione di una via per vivere con speranza: è la via della fede, dell’abbandono a Dio, anche laddove non è spiegabile il mistero. Il Signore, che sta andando a morire e a risorgere a Gerusalemme, non dice queste cose con superficialità. Si sta preparando a vivere in prima persona ciò che dice, cioè l’abbandono silenzioso al Dio che sembra abbandonare l’uomo, ma che si rivela solidale e salvatore proprio distendendo le braccia, silenziosamente, sulla croce e poi risorgendo dal sepolcro, vittorioso sul peccato e sull’ingiustizia.
Certo non è facilmente comprensibile (se ci fermiamo alle nostre aspettative umane) il modo in cui Dio fa “prontamente” giustizia, come ci promette il Signore. Ma non spetta a noi stabilire quel modo. Dio ha già fatto la sua parte con la morte e risurrezione del suo Figlio, e la sta facendo ancora con la potenza del suo Spirito che parla, perdona e nutre oggi i discepoli. Quello che noi possiamo decidere è se stare o no dalla parte di Dio, “sempre, senza stancarci”, cioè senza scoraggiarci o incattivirci. Questo è ciò che verificherà il Signore quando verrà: «Troverà ancora la fede sulla terra?». E se venisse proprio adesso?
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