Intervista a don Georges Jahola.
Il 23 luglio 2016 è passato per Ferrara don Georges Jahola, della diocesi siro-cattolica di Mosul, con la quale l’Arcidiocesi di Ferrara-Comacchio è in contatto da tempo per costruire una relazione di fraternità nella fede e di sostegno reciproco. Don Georges (che era stato nella nostra parrocchia di S. Agostino il 15 gennaio scorso) ha incontrato l’Arcivescovo Mons. Luigi Negri, con il quale ha avuto un colloquio cordiale, e ha rilasciato tramite don Michele questa intervista per aggiornare la nostra Chiesa sulla situazione dei fratelli cristiani perseguitati in Iraq.
Quali sono le attuali condizioni dei cristiani di Mosul e Piana di Ninive in esilio ad Erbil?
Dopo due anni dalla fuga c’è la paura del futuro in quelle terre. Non avendo notizie e neanche promesse su come sarà il futuro, la gente cerca e sta cercando di lasciare tutto e di scappare fuori dal Paese. Questa è una reazione umana e diretta in questa situazione. Noi cristiani non abbiamo interesse politico a conquistare qualcosa o i diritti degli altri. Vogliamo soltanto i nostri diritti. Risulta più semplice lasciare questa terra che non ci ha voluto bene, purtroppo. Così la gente prende questa via di fuga, ma questo non vuol dire che il paese è svuotato. C’è anche gente che decide di aspettare per vedere cosa sarà delle nostre città. Ci sono questi due modi per affrontare la crisi. Per quelli che rimangono non è facile né dal punto di vista psicologico né dal punto di vista pratico, perché i problemi ci sono, soprattutto per la sopravvivenza. Il lavoro è scarso e laddove si lavora spesso lo stipendio non è sufficiente per sopravvivere. Ci sono ancora aiuti umanitari, ma scarseggiano, perché non ci sono fondi per alcune associazioni che aiutavano… Perciò c’è il grande problema che chi non ha lavoro non riesce a sostenere la propria vita e la propria famiglia, per pagare i cari affitti e le altre esigenze della vita quotidiana. Tutti i progetti per spingere i cristiani in Iraq a restare sono utopia, ed è un peccato buttare i soldi per progetti che son a favore solo di singole persone.
Come continuate a vivere nella fede questa esperienza di persecuzione? Cosa sta maturando nella fede del vostro popolo?
Certamente non tutti i fedeli sono uguali, ma notiamo quanto la gente ha sete della fede e della Chiesa. Qualsiasi iniziativa è molto partecipata. Ultimamente abbiamo ripristinato la catechesi estiva per i ragazzi delle elementari e per i giovani. Sono venuti ragazzi in massa: non sapevamo dove metterli perché non abbiamo strutture adatte e il clima è molto ostile, siamo stranieri in quella terra. Però abbiamo potuto mettere a disposizione dei pullman, pur con tante difficoltà, perché la gente è sparsa per la città, lontana dai centri di catechesi, e abbiamo sofferto un po’, ma è stato positivo, perché la gente non vuole abbandonare la propria fede e vuole educare i figli nella fede e nella catechesi, trasmettere quello che hanno imparato. Questo è molto positivo.
Come Chiesa abbiamo bisogno di qualcuno che ci suggerisca come agire in questo periodo in cui la nostra Chiesa è confusa e non sa come indirizzarsi, come guidare il popolo. L’unica cosa che sa fare è trasmettere la fede, ma abbiamo la necessità di sapere anche concretamente dove andiamo. Non dobbiamo essere credenti in astratto. Siamo figli di questa terra e dobbiamo sapere come camminare, come agire in questa terra e in questa ricerca siamo piuttosto in difficoltà.
In questo tempo, tu da prete, come stai ricomprendendo la tua vocazione?
Personalmente mi spinge il desiderio di vivere come pastore tra le pecore: stare tra la gente, in qualsiasi situazione. Questo è un modo per me nuovo di lavorare. La situazione difficile non mi ha fatto deviare né provare disgusto: questa è una sfida e devo approfittarne per dimostrare di più, per me stesso e per la gente, che la vocazione sacerdotale trova la sua fioritura anche nelle situazioni più difficili. È un modo di testimoniare la vocazione davanti alla gente: amare il lavoro pastorale. Tanti mi dicono che sono passato da un contesto tranquillo, senza tante responsabilità pastorali, e ora di colpo sono immerso in questa situazione. Io rispondo che sono fatto di questa terra: non sono estraneo al lavoro pastorale e alle esigenze che ci sono.
Come evolve la situazione politica/militare in Iraq? Quali speranze di ritornare a Mosul e nelle città cristiane circostanti?
Purtroppo, dal punto di vista politico le cose non stando andando bene. Non c’è un governo veramente sovrano. È un governo che viene spinto e che lascia fare quello che è dettato da altri paesi e governi più forti. C’è un conflitto politico veramente molto forte tra sunniti, sciiti e curdi. C’è conflitto tra il governo centrale e i curdi, e anche all’interno dei curdi ci sono divisioni (non sul fatto della autonomia curda, ma sul come governare). Il governo centrale poi è combattuto tra la maggioranza sciita, che viene spinta per esempio dall’Iran, e altre componenti che sono spinte da Arabia Saudita, Qatar e Turchia. Tutto questo però va secondo il piano della vera forza occupante dell’Iraq che sono gli Stati Uniti. I governi e gli attori politici seguono gli ordini sia militari (per conquistare le terre occupate dall’Isis) sia di governo del paese. Tutto va secondo il piano dettato dagli Stati Uniti. Questo è chiaro, anche se apparentemente gli Stati Uniti lasciano fare al governo iracheno.
Sul piano militare c’è un progresso nella riconquista delle terre irachene. Ma il problema riguarda il dopo. Una volta che fossero riconquistate le terre, rimane il problema del conflitto politico tra sunniti (del governo centrale) e soprattutto i curdi. Ci sono gli interessi degli altri paesi cui ho accennato (Iran, Arabia Saudita, Turchia, Qatar). Questa è la grande paura del futuro per il nostro popolo, i cristiani e anche le altre minoranze. Che fine faranno le nostre terre? Non è questione di stare sotto il dominio curdo o del governo centrale iracheno, ma stare veramente in pace, di avere le nostre proprietà e le nostre terre, di avere l’identità che è stata cancellata.
Il patriarca siro-cattolico Youssef III Younan ha recentemente usato parole coraggiose per denunciare l’indifferenza del mondo occidentale e dei suoi leaders nei confronti dei cristiani dell’Iraq e della Siria, e in particolare per dire che, pur ringraziando degli aiuti umanitari, c’è bisogno bisogno di altro: che finisca la manipolazione dell’opinione pubblica in occidente, che venga detta la verità sui veri attori che hanno imposto la guerra in Siria e in Iraq. Che ne pensi? Come reagire, come collaborare per una informazione più vera?
La Chiesa, certo deve dire la verità, è suo compito! Deve denunciare il male, e questo purtroppo non è stato espresso né dalle nostre autorità religiose né nel resto del mondo: la Chiesa universale non è stata molto chiara. Perché? Forse perché abbiamo paura. Ma di che cosa? Sicuramente la dichiarazione del patriarca Younan è giusta, e avrebbe potuto farla da subito. Questa voce dovrebbe essere più forte, perché oggi nella Chiesa mancano i martiri, i martiri della verità. Questi martiri non sono solo la gente normale che viene uccisa perché professa la fede cristiana, ma lo devono essere anche i nostri responsabili. Abbiamo paura di non mantenere la nostra poltrona o altri interessi. Oggi nel mondo non ci sono molti vescovi esiliati a causa dalla verità: quei pochi lo sono perché hanno detto la verità. Forse nella nostra Chiesa abbiamo bisogno di queste figure, che dimostrino al mondo che la Chiesa non è indifferente, ma si prende cura della verità, quella religiosa e quella umana, che non si possono separare. Il fatto che manchino decise denunce sull’inerzia dei governi occidentali, come ha confermato S. E. Mons. Luigi Negri nel dialogo che abbiamo avuto oggi, mostra questa lontananza, nei nostri tempi, della capacità di dire la verità.