Commento al Vangelo del 19 giugno 2016.
Gesù, educatore eccezionale dei suoi discepoli, li invita ad una rilettura della esperienza sinora fatta con lui (Lc 9,18-24). Invita a riflettere su ciò che la gente dice di lui, per arrivare a chiedere loro di prendere posizione. Comincia a prendere forma la professione di fede della Chiesa, con l’affermazione di Pietro: «Tu sei il Cristo di Dio». Sono i primi frammenti del ‘Credo’ che delinea l’identità di Gesù nel suo rapporto con il Padre e lo Spirito Santo.
Gesù è il ‘Cristo’, ma non vuole che si usi questa parola, pur così presente nelle antiche promesse di un Salvatore che avrebbe finalmente attuato l’intervento definitivo di Dio nella storia. Non vuole perché Lui, Gesù, è un Cristo molto strano. Il suo modo di salvare gli uomini è rivoluzionario, inatteso. Scandaloso. Passa inevitabilmente attraverso la passione e la morte. Per ridare la vita agli uomini, il Signore deve soffrire molto ed essere ucciso. Per annientare il male, deve prenderselo addosso. Per garantire a noi l’esperienza della misericordia di Dio, deve manifestarla dentro alla condizione più terribile, condensata nella esperienza mortale della croce.
L’ultima parola, quella decisiva, è però l’annuncio della risurrezione: il trionfo della vita e dell’amore, della pace e della riconciliazione. L’ultima parola non è ‘morte’, ma vita d’amore pieno e definitivo. La cattiveria degli uomini e del Nemico degli uomini non sono abbastanza forti da spegnere il fuoco d’amore che arde nel cuore di Gesù.
Da questa identità del Signore dipende la fisionomia spirituale del discepolo. Anzitutto il discepolo è invitato a seguirlo nella libertà: «Se uno vuole», dice Gesù, perché essere discepoli è una esperienza di amore, e l’amore non può essere costretto. Il discepolo è poi essenzialmente uno che vuole ‘andare dietro’: affascinato e conquistato dall’amore personale del maestro, vuole stare sui suoi passi, costi quel che costi, perché vuole vivere del suo amore indistruttibile. Poichè ha incontrato l’autore della vita, trova senso e ispirazione in Lui, ed è capace di ‘rinnegare se stesso’, cioè di rinunciare all’orgoglio, alla pretesa di mettersi al posto di Dio. Non significa annullarsi, cancellare la propria persona, ma decidere un principio, un criterio nuovo di giudizio su tutta la propria persona e la propria vita. Il discepolo non decide più da solo della sua storia, ma si lascia condurre dall’amore sapiente del Maestro. Qualcuno potrebbe pensare che questa è limitazione della libertà. Per il discepolo di Gesù invece è l’esaltazione della libertà, perché si sente profondamente rispettato nell’amore e valorizzato in ogni fibra della sua persona, illuminato dalla verità di Dio e aiutato a compiere con responsabilità il proprio progetto di vita. Dio non castra le persone, ma le conduce a fare grandi cose nell’amore e nella giustizia. La libertà, infatti, è certamente libertà di scegliere ed è pure un processo di liberazione da tutti i condizionamenti, ma trova la sua pienezza quando la persona si muove responsabilmente per donarsi agli altri e ricevere il loro amore. La storia dei santi ne è testimonianza credibile. E ne è testimonianza credibile anzitutto la storia di Gesù Cristo, il figlio di Dio che con una libertà impressionante si è donato fino alla morte, e alla morte di croce, in un atteggiamento di infinita obbedienza al Padre. In Gesù vediamo un impressionante paradosso: il massimo della libertà coincide con il massimo dell’obbedienza!
Con Gesù, il discepolo sa vivere in modo rivoluzionario anche la croce, sa ‘prendere la sua croce ogni giorno’. Non si tratta certo di masochismo, o di andare in cerca di dolori e sofferenze. Piuttosto, si diventa capaci, seguendo Gesù, di amare anche quando si soffre, di offrire se stessi con amore anche nel dolore. Si fa l’esperienza di voler bene agli altri anche se si è ammalti o maltrattati. Anche qui, bisogna sottolineare che si tratta di uno schiacciamento della persona del discepolo. In realtà, a schiacciare le persone è proprio la sofferenza non accettata e non vissuta nell’amore. L’amore non toglie il dolore (Gesù lo ha provato sulla propria pelle), ma fa guardare al dolore in modo diverso. Per dirla con S. Paolo: «Per questo non ci scoraggiamo, ma, se anche il nostro uomo esteriore si va disfacendo, quello interiore invece si rinnova di giorno in giorno. Infatti il momentaneo, leggero peso della nostra tribolazione ci procura una quantità smisurata ed eterna di gloria» (2Cor 4,17).